Ricevo questo pensiero da Ilaria Brugnoli – che ho conosciuto recentemente – la quale ha deciso di supportare la mia candidatura a Presidente della Federazione Italiana Triathlon e, naturalmente, quella di Mauro Preziosa, candidato alla carica di consigliere federale quota dirigenti, e di tutta la squadra.
Confrontandomi con lei, e non solo, ho potuto capire quanto il Paratriathlon abbia importanti margini di crescita se supportato dalle giuste strategie.
“I have a dream“, diceva Martin Luther King.
Credo che questa sia la frase giusta per iniziare il mio breve pensiero sul perché sia fondamentale andare oltre quello che già esiste. Nel nostro mondo, quello dello sport paralimpico, è ancora più importante avere dei sogni. Non che nello sport “normo” non lo sia, ma quando si affrontano quotidianamente sfide e ostacoli, credere in qualcosa di autentico e vero diventa essenziale.
Fare sport in un ambiente in cui tutto è guidato da raccomandazioni e scelte soggettive, dove esistono ancora atleti di serie A e serie B, è inaccettabile. Questo è ancora più grave se l’essere disabile diventa un motivo di esclusione, lasciando spazio solo a chi è “meno disabile”. Solo perché è più comodo così. Credo fermamente che, prima di fare qualsiasi valutazione, ogni atleta debba essere messo sullo stesso piano degli altri, e solo dopo si possano fare delle scelte.
Mi chiamo Ilaria Brugnoli e faccio parte del mondo paralimpico dal 2019. Ritengo sia giunto il momento di fare un passo avanti, perché ogni atleta ha il diritto di esprimersi nella sua totalità unica e soggettiva. Ognuno di noi è unico e deve essere trattato come tale!
Mi auguro che chi andrà a votare valuti anche come funzionano le cose dietro le quinte e non si fermi alla sola valutazione di facciata. Siate consapevoli del vostro voto!
Ricevo questo scritto da Maurizio De Benedetti, candidato consigliere quota tecnici, che voglio condividere insieme a voi.
“Gli atleti sono la parte bella di una qualsiasi organizzazione sportiva. I tecnici si occupano di loro e li proteggono come dei figli, insieme alle società e, quando sono fortunati, alle famiglie.
La cosa più triste per un tecnico e per il suo staff è che l’atleta lo lasci per provare a crescere altrove.
L’atleta, la parte bella dello sport!
Come non essere contenti quando i risultati arrivano e, più ancora, quando sono prestigiosi.
Ma i nostri migliori atleti fuggono ad allenarsi all’estero. A loro spese. Perché?
L’attuale dirigenza, insieme all’area tecnica, ha fatto di tutto per tenerli sotto la propria ala, per poi arrendersi all’evidenza dei fatti. Così i campioni si allenano negli squad all’estero. Il peso grava, così, sulle società di appartenenza, sugli stipendi degli atleti e sulle famiglie, artefici dei loro successi con l’impegno economico investito.
Le richieste verso la Federazione di questi splendidi atleti sistematicamente ignorate, anzi, ostacolate in tutti i modi.
La cosa che stride e davvero fa arrabbiare è che quando questi stessi atleti fanno risultato internazionale la “federazione social” li applaude come fosse farina del proprio sacco.
Perché, invece, non ci spiega i motivi di queste fughe? Sarebbe come ammettere la scarsa lungimiranza sui reali bisogni di un atleta di alto livello. A chi chiedeva, è stato risposto che la Federazione non è un bancomat. E allora, a cosa servono i soldi se non a far crescere agonisticamente un atleta, il proprio staff di lavoro e il movimento intero?
Facile millantare meriti non propri, ma la politica del massimo risultato con il minimo sforzo prima o poi implode.
Ora, presidente, se la giochi come al solito da vittima, da quello che viene attaccato senza ragione, vittima dei dimissionari, vittima degli attacchi sconsiderati dell’opposizione. Una sorta di “a mia insaputa“, il più classico del peggiore stile italiano. Un modus operandi di cui davvero non ne sentiamo più il bisogno.”
“Siamo profondamente fieri di far parte della delegazione italiana più numerosa di sempre che andrà a onorare al meglio il body azzurro a Parigi. La strada da percorrere è ancora molta ma sono sicuro che la direzione è quella giusta, un passo alla volta possiamo arrivare a grandi risultati”.
Queste le parole che chiudono le dichiarazioni di Renzo Roiatti, Direttore Tecnico Paratriathlon (mai comunicato il cambio di Direzione Tecnica dalla squadra presentata in pompa magna a inizio 2022 dove era presente Mario Poletti, alla faccia della trasparenza, NDR).
Da un’attenta analisi sui numeri si parla di ovvietà!
Il Triathlon fa il suo debutto paralimpico a Rio 2016 con 6 eventi medaglia e 60 atleti, passando per Tokyo 2020 con 8 medaglie e 80 posti, fino ad arrivare a Parigi 2024 con ben 11 eventi medaglia e 120 posti.
Diventa chiaro come sia stato possibile avere 5 atleti qualificati dal ranking ed 1 invitation, rispetto alle 5 slot ottenute a Tokyo tre anni fa che rappresentavano il 6,25% contro il 5% dell’attuale quota di slot disponibili allocate a queste paralimpiadi.
Non possiamo dimenticare che gli atleti che andranno a “onorare il body azzurro al meglio” lo faranno per loro caparbietà e spirito di sacrificio, visto che alcuni alla vigilia dell’ultima gara di qualifica e ancora in top 9 hanno dovuto pagare le spese di trasferta per inseguire questo obiettivo. “La strada da percorrere” si fa ancora più in salita sapendo che tre dei qualificati, praticamente la metà, è stata lasciata fuori dal ritiro pre-paralimpico perchè non probabili di medaglia. Viene da chiedersi: tutti questi fondi sbandierati a destra e a manca dove vanno a finire? Non di certo sono investiti sugli atleti che vanno alle Paralimpiadi.
379mila euro a cui si vanno ad aggiungere altri 160mila per l’anno in corso, per arrivare a quota 539mila euro che non bastano per permettere agli atleti di seguire un percorso lineare e sereno di qualifica e nemmeno affrontare al meglio la preparazione e l’allenamento con tutto il supporto necessario da parte della Federazione. Per la dignità degli atleti questo è inaccettabile.
Questa Federazione si merita una gestione più trasparente e meritocratica, che ascolti i tesserati, gli atleti, i tecnici, i dirigenti. Che lavori davvero per ottenere il “grandi risultati”, con impegno e supporto, senza sparire quando le acque si fanno agitate e riapparire per sbandierare fuffa al vento.
Una scelta accurata delle gare per gli atleti élite nel Paratriathlon è essenziale ed è uno dei nostri punti chiave nella gestione dell’alto livello, non dimentichiamo che per questo motivo abbiamo lasciato uno se non due atleti fuori dalla Qualifica Paralimpica. Una figura tecnica di riferimento come il DT in un “triennio” non può essere sostituita così alla leggera: noi imposteremo una programmazione più a lunga gittata e soprattutto tempestiva in base alle esigenze di uno sport così dinamico. Coinvolgere o meno gli atleti nei raduni dovrà essere chiaro sin dall’inizio, e soprattutto servirà a motivare il confronto ed accrescere il proprio bagaglio tecnico per raggiungere davvero l’alto livello.
Si può #faredipiù, si può #faremeglio e si può #fareinsieme, per essere veramenteinclusivi e per dare dignità ai sacrifici che tutti abbiamo fatto, facciamo e faremo per questo nostro amato sport.
Denunciate e debellate chi non vuole il bene del nostro movimento, il 31 agosto venite a votare e se non potete farlo, delegate ricordandovi che il sistema assistenzialistico e clientelare di quest’ultimo triennio è sistema che non aiuta il movimento crescere, è sistema che fallisce in partenza perché non premia il merito e la competenza e non fornisce una visione a medio lungo termine.
L’Italia ha chiuso al sesto posto la Mixed Relay ai Giochi Olimpici di Parigi. Gianluca Pozzatti, Alice Betto, Alessio Crociani e Verena Steinhauser si sono espressi al meglio con convinzione e determinazione, ci hanno fatto emozionare e hanno sportivamente lottato al massimo delle loro possibilità. E il piazzamento ottenuto a Tokyo 2020 (8°) è stato migliorato di due posizioni.
Un buon risultato? Si. Una bella e avvincente gara? Si. Gli Azzurri hanno onorato i nostri colori? Si. Gli obiettivi sono stati raggiunti? No.
Ci soffermiamo, ancora una volta, sulla differenza sostanziale che c’è tra tifoso e dirigente e tecnico, tra alto livello e sport per tutti, tra visione chiara e totale assenza di pianificazione.
Gli obiettivi – anche se pubblicamente non sono stati comunicati in maniera chiara e trasparente (quante dichiarazioni ha fatto il DT in questi 3 anni? E il DS?) – erano ben definiti: top-8 nelle gare individuali, e di questo fallimento abbiamo già parlato, e una medaglia nella prova della staffetta mista.
Ripetiamo: gli atleti hanno dato il massimo, hanno fatto il meglio possibile, ce ne siamo resi conto, lo abbiamo percepito tutti con orgoglio, ma non ci si può fermare a questo in fase di analisi della prestazione quando si parla di alto livello.
Il presidente, molto presente sui social, nelle dichiarazioni sui canali istituzionali e anche in tv, non ha mai dichiarato espressamente l’obiettivo fissato dall’area tecnica di cui è il responsabile: perché questa paura di dichiarare qual è la nostra missione? Se il nostro 100% non basta per raggiungere gli obiettivi prefissati, leggi conquistare una medaglia olimpica, dobbiamo porci dei seri interrogativi e capire ciò che non è andato nella programmazione e nel processo anziché limitarsi a compiere ragionamenti superficiali che ci allontanano sempre di più dalla concretezza necessario per fare il salto di qualità in ambito élite.
Va aggiunto che la formazione italiana era la meno giovane in gara con 30,2 anni di età media per frazionista. Verso Los Angeles 2028, le prospettive non sono così rosee a meno che non si compia una repentina virata che consenta di cambiare decisamente e rapidamente rotta.
Delle olimpioniche di Parigi, Alice Betto si avvia a fine carriera e Verena Steinhauser a Los Angeles sarebbe al terzo ciclo olimpico a 34 anni. Oltre a Ilaria Zane, che a Los Angeles avrebbe 36 anni, le attuali atlete potenzialmente candidabili per un posto in nazionale mostrano un’esperienza scarsa in ambito di partecipazione ed esposizione ai massimi livelli di competizione, sia individuale che di squadra. A esclusione di Alessio Crociani, formidabile interprete della specialità, e Gianluca Pozzatti, che nel 2028 avrebbe 35 anni e non si ha la certezza che continui, gli uomini della squadra azzurra in prospettiva Los Angeles possono contare su Nicola Azzano, che, con 4 presenze nel massimo circuito WTCS individuale e 6 in staffetta è l’unico atleta ad avere un bagaglio internazionale ad alto livello. È evidente che ci sia un gap da colmare molto velocemente per portare gli atleti più giovani ad accumulare esperienza ai massimi livelli delle competizioni internazionali.
Altro dato significativo è la totale assenza di intere annate di atleti capaci di sviluppare la carriera sportiva internazionale. Sono assenti maschi 2000, 2002 e 2003, mentre nelle donne c’è una sola atleta per le annate 2001-2002-2003-2004. Dati alla mano, si evince che è totalmente da ripensare la gestione del passaggio tra il settore giovanile e quello élite.
Soffriamo quando sentiamo proclami come “risultato storico, il nostro miglior risultato di sempre” per un sesto posto (non abbiamo notato proclami per un piazzamento da diploma olimpico da parte delle altre federazioni sportive), ci fa ancora più male quando si millanta un “cambiamento culturale”.
Il cambiamento, effettivamente, c’è stato: ha cancellato la capacità di guardare al futuro concretamente, senza necessariamente creare una contrapposizione a orologeria con ciò che in passato è stato fatto bene, ha annichilito la cultura sportiva della prestazione, ha cancellato una delle caratteristiche imprescindibili della Federazione stessa che deve soltanto lavorare per la crescita dello sport e anziché agire contro qualcuno, ha evidenziato una narrazione sbilanciata sui social media e davanti alle telecamere nei confronti di un’impostazione che non risulta essere al passo con i tempi, ma soltanto atta ad alimentare il consenso.
Ci vediamo a Los Angeles, questo è sicuro, confidando che il timone di questa Federazione sia in mano a chi veramente vuole mettere gli atleti al centro del progetto.
Noi siamo certi di poterlo fare, mantenendo viva la passione del tifoso, ma con la lucidità e la competenza di dirigenti e tecnici che hanno come unico obiettivo il bene del triathlon italiano.
Anche questa volta, non abbiamo scritto la storia.
Perdonateci questa semicitazione, ma analizzandoi risultati dell’Italia del Triathlon ai Giochi Olimpici, è la prima conclusione che ci viene in mente.
Abbiamo seguito e incitato i nostri portacolori, da vicino o da casa, abbiamo fatto il tifo per loro in ogni modo e ci siamo anche goduti lo spettacolo che le due prove individuali di Parigi 2024 ci hanno regalato.
Quando si assiste all’evento più importante del quadriennio, è sempre bello ed emozionante vedere il body azzurro nel gruppo, lo è ancora di più quando lo vediamo in testa, sebbene nelle fasi iniziali delle gare. Però un conto è essere tifosi, un conto è dirigere una federazione e avere la responsabilità dell’area tecnica che ha come missione quella di ottenere il miglior risultato possibile nelle gare di alto livello, in particolare ai Giochi Olimpici.
Ci siamo presi qualche ora, abbiamo smaltito l’adrenalina che ogni Olimpiade regala, e abbiamo compiuto un’analisi dettagliata dei risultati Olimpici dal 2000 a oggi.
Andiamo dritti al punto: i risultati ottenuti dalla Nazionale Italiana di Triathlon sono stagnanti. Ci sono stati due acuti che hanno portato ad altrettanti diplomi olimpici, il 5° posto di Nadia Cortassa ad Atene 2004 e il 7° posto di Alice Betto a Tokyo 2020, ma la media dei piazzamenti degli Azzurri è sempre stata, a grandi linee, equivalente.
Malgrado la narrazione degli ultimi mesi abbia identificato nella giovane età degli atleti uno dei tratti distintivi della nazionale italiana, i numeri danno altre risposte. L’età media degli italiani è di 29 anni (ci sono 11 nazioni che hanno portato almeno 3 atleti a Parigi che hanno un’età media inferiore, il Portogallo 25,2 anni): 2,5 anni in più rispetto ai vincitori (26,5 anni), 0,9 rispetto ai medagliati e alla top-8 (28,1).
Rispetto a Tokyo 2020, la selezione italiana ha 0,8 anni in più. Tre anni fa c’erano già Pozzatti, Betto e Steinhauser, mentre Seregni e Crociani sono alla prima esperienza olimpica. I nostri due giovani, però, non lo sono in assoluto (ricordiamo che Uccellari fu il più giovane della start list di Londra 2012, 21 anni): Bianca è la sesta più giovane (5 ragazze nate più tardi di cui una 4 anni più tardi), Alessio è il secondo/terzo più giovane (pari merito con McCullough).
Anche sull’approccio dell’area tecnica attuale nei confronti del passaggio da gare junior a élite ci sarebbe ancora tanto da dire, ma ci limitiamo a ribadire che gli atleti élite italiani approdano ai massimi livelli delle competizioni internazionali più tardi rispetto ai coetanei di altre nazioni, in particolare rispetto a quelle di riferimento che non lesinano a schierare atleti poco più che ventenni nel massimo circuito mondiale (Knibb, Tertsch e Waugh, Vilaca, Hellwig, Lehmann, Thorn, Batista e Hidalgo, solo per citare qualche nome).
Se guardiamo al medagliere complessivo delle gare individuali (aggiornato a mercoledì 31 luglio) del triathlon alle Olimpiadi, notiamo come 16 nazioni abbiamo portato atleti sul podio. Tante? Poche? Un solo dato è incontrovertibile: l’Italia non fa parte di questo gruppo. Arrivare a primeggiare al termine di un quadriennio olimpico, fare risultato ai Giochi Olimpici, portare a casa una medaglia o un successo, sono processi complessi e macchinosi, che necessitano di una pianificazione ben definita non soltanto per il breve periodo e una gestione scrupolosa delle risorse a disposizione.
A proposito di gestione delle risorse, balza all’occhio un dato: a Parigi 2024 sono stati ottenuti gli stessi risultati di Rio 2016 nonostante un maggiore dispiegamento di risorse federali, più del doppio (22,1 milioni in 3 anni, 7,4 a stagione).
Ambienti di lavoro quotidiano qualificati, atleti liberi di inserirsi in questi contesti e di sfruttarli al massimo, valorizzazione e supporto delle scelte e dei percorsi individuali: questo servirebbe per far crescere i triatleti italiani, questa sarebbe la destinazione corretta degli investimenti, ma la Federazione non ha promosso e messo in atto nulla di tutto ciò. Allora, dove sono finite tutte queste risorse?
Abbiamo ascoltato molti proclami sul bilancio e sulle entrate della FITRI che spesso somigliavano a un mantra, o meglio, a un disco rotto. Dati alla mano, non sono altro che l’ennesima dimostrazione di inefficienza della dirigenza che ha guidato la Federazione dal 2021 a oggi. In qualsiasi azienda, un manager che realizza lo stesso utile a fronte di un investimento doppio, sarebbe immediatamente sollevato dall’incarico.
In queste ore, il presidente decaduto, in prorogatio per lo svolgimento dell’attività ordinaria, sta continuando a fare proclami da Parigi (stucchevole l’intervista rilasciata alla Rai pochi minuti prima della partenza della gara femminile, in cui parla ancora di federazione in crescita ed evita di parlare di risultati “per scaramanzia”) e sui social, ribadendo di come il suo mandato sia stato contraddistinto da visione, lavoro, competenza, programmazione. I numeri però dicono un’altra cosa, il campo gara, anche. Intanto, l’appuntamento con la storia è nuovamente rimandato.