L’interpretazione di un fatto o la formulazione di un giudizio in corrispondenza di un criterio soggettivo e personale, oppure una convinzione in materia morale, politica, sociale, religiosa. Queste sono due definizioni di opinione, un concetto che spesso viene abbinato a quello di libertà.
Proprio quella libertà di opinione (o di di manifestazione del pensiero, per i più eruditi) che viene descritta e sancita in Costituzione, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma che non viene applicata in Federazione Italiana Triathlon.
“La comunità del triathlon”, “noi siamo uno”, “il gioco di squadra”, sono soltanto alcune delle espressioni usate ricorrentemente come dei mantra per far intendere di quanto il movimento sia coinvolgente, inclusivo, equo, che guardi tanto al vertice, quanto alla base. Un movimento in cui tutti possono esprimere la loro opinione. Si, purché sia favorevole. Se un tesserato esprime dissenso, arriva a bussare la giustizia sportiva, se i pareri contrari vengono espressi da soggetti non tesserati, si chiama in ballo la giustizia ordinaria, magari partendo con l’invio di una diffida.
Ma non ci lamentiamo troppo: ci sono i social, quello sì che è l’ecosistema adatto per confrontarsi, divulgare un punto di vista, manifestare le proprie idee. Finché i commenti non vengono cancellati o non si viene bloccati.
Quei social che crescono a dismisura (sebbene sui campi gara le persone siano sempre meno), che sono lo strumento di condivisione del presente, che mettono in luce quanto di buono viene costantemente fatto. Quei social che appiattiscono il valore delle cose, che uniformano ogni concetto e che annientano i valori di importanza e qualità.
Quando si conquistano spazi sulla stampa che conta, ci si dimentica che siamo nell’anno dei Giochi Olimpici e Paralimpici e si mettono da parte le stelle del nostro movimento per dare voce soltanto a chi dovrebbe lavorare dietro le quinte per valorizzare atleti, tecnici e dirigenti che sono la spina dorsale dello sport italiano (ma non soltanto ripetendo la solita poesia imparata a memoria che sentiamo ormai da anni). Bisogna sempre nutrire il consenso, d’altra parte, noi siamo uno.
Guai a fare opposizione, che per definizione si assume l’impegno di essere una forza alternativa che garantisce il pluralismo e la separazione dei poteri. Non bisogna nemmeno parlare con chi non ha idee allineate o semplicemente esprime critiche costruttive: in tal caso, o si viene richiamati all’ordine (in tutti i sensi), o si viene indicati come coloro che guardano “dal buco della serratura”, dunque sottolineando quanto siano esclusive le stanze dei bottoni e quegli ambienti che davvero contano.
Meno male che, guardando attentamente da alcune fessure non presidiate, qualcosa si intravede. Questo è l’unico modo, purtroppo, poiché di documenti ufficiali (delibere, queste sconosciute) se ne vedono pochi, di resoconti e dirette streaming dei consigli federali ancora meno.
Non ci accontentiamo dei numeri gonfiati, delle dichiarazioni sfavillanti, dei sorrisi mostrati a orologeria e non contempliamo che le risposte debbano filtrare solo quando qualcosa sfugge maldestramente al controllo centrale.
Non lo accettiamo e non accetteremo alcuna censura, né ora, né quando saremo chiamati a prendere posto tra gli organi centrali e periferici di questa Federazione, perché, sebbene in certe circostanze “disapproveremo quello che direte, difenderemo fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. Gli amici di Voltaire ci perdoneranno, qualcun altro forse no.